Critica



 

1971 - Paolo e Romana Zauli


"Critica grafica di Franco Pacetti"

Riposo (acquaforte, 1951, cm 16 x 21,3)

Riposo
(acquaforte, 1951,
cm 16 x 21,3)

"Inconsueto, quest'anno, l'appuntamento della Galleria del Caminetto con gli amici: una rassegna grafica al posto della tradizionale mostra di antichi Maestri del disegno.
Ovviamente la scelta non è semplice frutto di contingenza, anche se l'attuale situazione nel campo dell'antiquariato e, specificatamente, l'acquisizione di valide opere antiche presenta non poche difficoltà.
Tuttavia, proporre alla critica ed agli amatori d'arte una personalità come quella di Franco Pacetti ha senza dubbio costituito una forte tentazione per la Direzione della Galleria, tentazione a cui non si è sottratta.
Dire che le giovani leve della grafica italiana si contano praticamente sulle dita è cosa risaputa; quindi, rilevarne oggi un protagonista è, ci sembra, opera meritoria del «Caminetto», anche per tener fede all'impegno che la Galleria si è assunta anni or sono verso il suo pubblico di estimatori di presentare rassegne sempre all'altezza di rigoroso vaglio critico e frutto di indiscusso talento.
Come si diceva, Franco Pacetti è un protagonista. Lasciata Fondo di Trento, dove è nato nel 1928, si è avviato all'arte frequentando i corsi di scenografia presso la nostra Accademia, ed ha proposto dapprima i propri lavori soltanto in «collettive», quali, nel 1953, la Mostra nazionale del «Bianco e Nero» organizzata dalla FUCI (vincitore del primo premio) per conseguire successivamente un premio-acquisto alla Biennale nazionale del «Bianco e Nero» tenutasi a Forlì e a quella di Cesena una medaglia d'oro.
Infine, si aggiudicò il premio-acquisto alla Mostra nazionale d'arte contemporanea indetta a Bologna nel 1955 dal Sindacato Artisti.
Un «curriculum», come si vede, non affastellato da «rassegne» più o meno valide, ma intenso nei raggiungimenti e costante nell'impegno.
Franco Pacetti è, dunque, una figura «nuova», una grafia artistica tutta da scoprire ed il visitatore si accorgerà subito di quale tempra. La sua è un'arte ostica nella scelta, profonda nell'analisi, graffiante nel «segno». Non gli interessano, evidentemente, gli attuali funambolismi di forma e di linguaggio mascherati dalla cosiddetta critica sociale. Il suo raggio d'azione, il suo «amore», la sua costante ricerca è l'uomo. L'uomo di oggi, l'uomo della strada, l'uomo di tutti i giorni con i suoi problemi semplici ma veri, le sue angosce quotidiane (queste, sì, genuine) i propri sofferti interrogativi in un mondo costantemente propenso all'urlo.
Ma, soprattutto, Franco Pacetti si pone di fronte al dramma di una umanità che ha perduto la propria fisionomia morale, naufragata da tempo, da troppo tempo, assieme agli ultimi relitti dell'umanesimo.
E proprio da queste meditazioni l'artista tenta di scoprire, riuscendovi appieno, una rinnovata metafisica, l'ancora di un neo-umanesimo da proporre alla smarrita «interiorità» dell'uomo d'oggi. Da tale ricerca nasce conseguentemente la sostanziale rivalutazione dei valori essenziali della vita, una rinascita sofferta e liberatoria dell'homo sapiens, la presa di coscienza individuale di fronte al singolo ed alla società che trae ancora una volta dall'intelletto e dal cuore forza «critica» e di riscatto."


 

1971 - Prof. Luciano Bertacchini


"Franco Pacetti alla mostra del «Caminetto»"

Sogno (acquaforte, 1968, cm 30 x 21,6)

Sogno (acquaforte, 1968, cm 30 x 21,6)

"Fino ad oggi, Franco Pacetti, si era presentato saltuariamente e soltanto in «collettive». Sollecitato da Paolo e Romana Zauli si è deciso a far conoscere, con una vasta «personale» la sua intera opera di «grafico» ed ha riunito nella galleria bolognese del «Caminetto» il lavoro di venti anni.
Esposte, addirittura, cento opere, fra le prime acqueforti di ricordo morandiano, gli studi, le successive fantasiose cattedrali, le recenti meditate allegorie, messe insieme, soprattutto, con umana, quotidiana angoscia. Sorprendente, in Pacetti, la consumata tecnica incisoria, la risolutiva efficienza chiaroscurale delle ultime composizioni animate da linguaggi surreali.
Spesso variato il suo mondo; insistenti i ricordi che, nel susseguirsi di esperienze, hanno lasciato, nelle immagini, nei mezzi espressivi, tracce facilmente scopribili ma, sempre sicura l'esecuzione, sempre sincero lo slancio emotivo dei naturali o più complessi, simbolici racconti."


 

2004 - Paolo Zauli


"La donna nella realtà pittorica di Franco Pacetti"

Ricordo (pastello, 1969)

Ricordo (pastello, 1969)

"Non sono ritratti, ma immagini di volti femminili, non sono astratti, ma consapevoli della loro realtà. Sono emozioni vissute, colloqui sussurrati, un mondo che affascina.
L'uomo pittore si compiace delle sue immagini, in esse traspare un colloquio preciso. La purezza dei volti contiene lo sguardo che assapora un senso poetico, quasi tattile, perché le mani mandano segni che riposano su un volto o su un grembo accettante un incontro. Il dipingere sa fare ascoltare l'osservazione, si fa sentire.
L'atmosfera è seducente ed affascina. Quello di Pacetti è il «pianeta donna» e trova una legittima collocazione ed esaudisce più di un desiderio. Se dalle origini pensiamo alla donna è stata via via un niente, un oggetto, una schiava, una peccatrice, un mistero, la costola sconosciuta. Le donne di Franco Pacetti sono un'isola felice, un pensiero castigato, un sogno velato, un colloquio atteso, un volto turbato, un pensiero penetrato, una sosta voluta, uno sguardo dalla finestra, un riposo sereno, l'attesa di un pensiero, un volto marcato, un atteggiamento sentito, un riposo voluto, una composizione a sé stante di figure sotto un portico dopo una siesta.
Non esagero nel dire che Franco si è compiaciuto con se stesso, basta pensare alla figura che appare dall'ombra di una profonda intensità. Immagini volute, sentite, atmosfere sognate."


 

2012 - Piergiovanni Pierantozzi


"Un incisore locale"

Momento d'alba (acquatinta, 1954, cm 19,8 x 23,4)

Momento d'alba
(acquatinta, 1954,
cm 19,8 x 23,4)

"Racconterò di una persona distinta e dai modi garbati che a metà degli anni novanta incontravo passeggiando lungo i laghetti del parco appena spianato, nuovo e bello di Pianoro. Nella primavera dell'anno scorso la rivedo andando ad una mostra di pittura alla Fornace di Rastignano, di cui avevo notato l'avviso nella locandina esposta sulla vetrina dell'ufficio d'assicurazioni dove mi ero recato qualche giorno prima. Con sorpresa scopro che lui era l'autore delle opere ed ancor di più mi colpiva la qualità dei lavori esposti, l'intensità e l'atmosfera che essi creavano, le forme raffinate delle immagini, la forza alchemica dei colori, la padronanza delle tecniche. All'inaugurazione della mostra, Adriano Simoncini alla presenza del sindaco, ci raccontò come per caso aveva scoperto anni prima le risorse di Franco Pacetti, l'artista in questione, e di come aveva faticato a convincerlo a mettersi in gioco ed esibire il suo lavoro. Del resto, nonostante la sua particolare riservatezza, Franco è uno specialista del settore a tutto campo: ha iniziato fin da giovane a dipingere e disegnare.
Passa un po' di tempo e vado a trovarlo a casa per documentarmi meglio. Subito scopro che il suo più attivo sostenitore è la moglie Maria Cecilia che in questi ultimi tempi ha anche raccolto metodicamente l'estesa produzione del marito che, con l'aiuto dei figli, è catalogata ed è rintracciabile in un database al computer. Ha conosciuto il futuro marito quando lui era insegnante di educazione artistica fuori Bologna. Quando si sono sposati, dopo qualche anno è riuscito a rientrare con l'insegnamento nella propria città.
Franco, nato in provincia di Trento, si trasferì da ragazzo a Bologna con la propria famiglia dove ha frequentato il liceo artistico e si è diplomato all'Accademia di Belle Arti. Nella propria formazione scolastica ha avuto l'occasione d'incontrare figure artistiche di grande rilievo, in particolare Nino Bertocchi, Osvaldo Licini e Giorgio Morandi. Ha avuto la fortuna di riuscire con quest'ultimo maestro a mettere a punto la tecnica dell'incisione che aveva coltivato da autodidatta fin dai tempi del liceo. L'incisione è una tecnica che porterà avanti negli anni, sviluppando un proprio stile attraverso un'intensa sperimentazione e ricerca. Quando Franco andava all'Accademia si trovava come in una grande famiglia, dice lui: «I maestri conoscevano da vicino gli studenti, loro erano in pochi ed il rapporto era amichevole».
Per confermarmi questo mi mostra un imponente ed antico torchio che ha installato in casa, ereditato dal maestro Nino Bertocchi. Con questo macchinone di ghisa, aiutato dalla moglie, riesce ancora a stampare in modo netto e pulito le sue acqueforti.
Tornando ai tempi della scuola c'erano a Bologna grandi personalità che hanno dato un forte impulso alla cultura artistica: Longhi, Arcangeli, Emiliani. Eravamo nel dopoguerra e finita la scuola Franco vinse un concorso per l'insegnamento e si allontanò da Bologna per lavorare, obiettivo ambito e non facile da raggiungere, ma importante per arrivare alla propria autonomia economica. Prima si recò ad insegnare in un paesino delle Marche ed in seguito a Ferrara. Ritornò a Bologna nei primi anni sessanta ed ha continuato ad insegnare nelle scuole medie di questa città venendo poi ad abitare a Pianoro, dove ormai risiede da diversi decenni.
In tutto questo tempo ha continuato a lavorare con l'acquaforte ed il disegno. Le sue opere giovanili, ancora conservate nelle cartelle, erano le vedute dal vero sul fiume Reno con i pescatori, le lavandaie, la campagna, luoghi non lontani da dove abitava. Poi le immagini diventano più intime, più visionarie, meno legate alla realtà immediata. Continua ad osservare le cose intorno a lui e le propone attraverso il filtro della memoria, sperimentando il modo di rappresentarle.
I temi che più lo colpiscono sono il portico di Bologna che contiene e protegge le persone, la notte che trasfigura le forme, la figura. La figura è un elemento centrale della sua produzione, eseguita principalmente con i pastelli, la matita e l'inchiostro. Queste opere non sono la rappresentazione del ritratto alla ricerca della verosimiglianza, sono lo studio della forma ideale, dove specchiare i propri sentimenti che sono mutevoli, visibili nel ridefinire le linee di contorno del volto, delle mani, degli occhi.
Le linee di per se sono movimento e lui lo amplifica nel moltiplicarle, con tratti che non sono ripensamenti ma inseguono i mutamenti dell'immaginazione mentre le aree di riposo dell'immagine sono le pennellate scure, collocate dentro e fuori la figura, che non riempiono gli spazi vuoti, anche esse misteriose. Dice che lo sguardo delle persone è spesso rivolto ai propri pensieri e questo lo si può osservare dal movimento degli occhi e lui con il disegno interpreta questo moto interiore.
Come si è visto il mistero è un altro suo tema preferito, nelle acqueforti la sperimentazione in questa direzione è su come possa emergere nella rappresentazione l'aspetto enigmatico di cose viste o immaginate come la siluette del paesaggio urbano, la figura elegante del corpo femminile che appare dal groviglio degli oggetti intorno, il racconto dei propri sogni notturni o di quelli ad occhi aperti.
Franco si sta attualmente organizzando per una grande mostra antologica in una galleria di Bologna ed in questa operazione la moglie lo aiuta. Verrà realizzato un grande catalogo, le opere saranno scelte con cura, l'obiettivo è quello di dare evidenza al suo lungo percorso artistico. Non è mai stato interessato ad operazioni mercantili sul proprio lavoro. La mostra alla Fornace lo ha incoraggiato a far vedere al pubblico le sue raffinate ricerche. Non dovremmo mancare a questo appuntamento."


 

2012 - Prof. Stefano Santuari


Presentazione della mostra alla Galleria d'Arte Sant'Isaia

"Ci credereste che a Pianoro, a due passi da Bologna, davanti a un monte, tagliato a metà come una torta troppo lievitata, che avrebbe suscitato l'interesse ossessivo di Cézanne, abita un giovane di più di ottanta primavere che ha messo a disposizione la sua mente e la sua anima a Bosch e a Durer o - meglio - li fa convivere sollecitando, fuori dal tempo, inesauribili colloqui con loro? Franco Pacetti è questo miracolo unico nell'attuale panorama della pittura emiliana del XX secolo.
Una vita trascorsa con la matita e il torchio, suoi unici veri amici e confidenti, insieme all'inseparabile e preziosa moglie, a inseguire e fissare visioni, costruire allegorie, sfidare simboli che, impregnando la sua intera opera grafica e pittorica, si espandono ben oltre le frontiere del conscio e del finito, per cercare di conoscere e indicare qualcosa che è oltre l'uomo stesso.
Tutta la sua arte è tesa a superare il convenzionale e la finitezza e punta con convinzione all'integrazione di opposti, ad unificare con l'immagine quello che le parole non riescono a dire. La sua è opera che conserva della coscienza morale meticolose apprensioni e metodo rigoroso. Sfogliare la sua immensa raccolta di stampe e di ritratti, equivale ad aggirarsi in un mondo in cui ciò che chiamiamo, impropriamente, realtà e sogno cozzano e s'intrecciano senza posa in prodigiose amalgame, mirabili per gli effetti di luce e di tenebra.

Piccolo sogno (acquaforte, 1968, cm 8,7 x 16,5)

Piccolo sogno
(acquaforte, 1968,
cm 8,7 x 16,5)

Già, tenebra e melanconia sono l'orizzonte, anzi l'aporia che Pacetti ha voluto indagare senza posa, condividendo con l'Ombra tutti i misteri in essa sigillati.
Da un punto di vista storico Franco è un pittore alchimista che dai suoi alambicchi distilla l'Opera al Nero, la Nigredo. Nel suo dizionario del 1758, Pernety riporta: "Melanconia significa putrefazione della materia, perché il colore nero ha qualcosa di triste, e perché l'umore del corpo umano chiamato melanconia è considerato come bile nera e cotta, che causa vapori tristi e lugubri", e aggiunge, "la materia al nero degli alchimisti è chiamata anche primo segno dell'opus poiché senza annerimento non vi sarà bianchezza".
A conti fatti Pacetti, dati questi presupposti, nella storia dell'arte è in ottima compagnia; oltre ai suoi "ospiti fissi" Bosch e Durer, troviamo Marten de Vos, H.S. Beham, Cranach il Vecchio, Domenico Fetti, Michelangiolo, Parmigianino, Joachim Patenier, Giorgione, Tiziano, Dossi, Caravaggio, David Teniers il Giovane, Giovanni Stradano, Arcimboldo, Georges de la Tour, ecc, ecc.
Dunque, su che cosa si richiude tenacemente la pittura di Pacetti? Se l'arte possiede il suo oggetto senza conoscerlo e la scienza lo conosce senza possederlo, la sfida di Pacetti è aperta a quel progetto che un poeta ha così formulato: "Chi afferra la massima irrealtà, plasmerà la massima realtà".
Dopo Jung sappiamo che arrivare a patti con l'Ombra significa scovarla, mostrarla, esibirla. Guardate, allora, la serie di Ombre che si accalcano in una sequenza di meandri architettonici e che Pacetti immobilizza, quasi sponde di un utero, di un locus che quotidianamente ci circonda e ci avviluppa e che ci rifiutiamo di vedere. Pacetti affronta la minaccia, perché sa che dietro la Nigredo c'è l'ascesa, la realtà dell'anima che è sì prigioniera del corpo, ma che insiste sullo stesso per farne una metafora, un simbolo fantasmatico.

Ragazza triste (tecnica mista, 1973)

Ragazza triste
(tecnica mista, 1973)

Ecco perché i suoi Ritratti nobilmente rinascimentali, potenti, hanno quattro o sei occhi: non si comunica con i corpi se non si oltrepassa la vitrea consistenza degli occhi che, essendo "gli specchi" dell'anima, riflettono simultaneamente dall'interno tutte le angolazioni, i guizzi, gli spiriti della vera vita. Quella di Franco è veramente una pittura di metafore, da cogliere nei particolari che vanno scrupolosamente cercati e che scuotendo l'immaginazione la catapultano in un mondo "altro". Un aggrumarsi di profondità ctonie, di paesaggi dell'anima trasposti dietro la pellicola delle apparenze. Si osservi anche come, senza intenzioni mnemotecniche, Pacetti utilizzi l'iconografia medioevale dell'acedia, il vizio capitale che oggi, senza aver compreso lo status della melanconia, chiamiamo medicalmente depressione. L'iconografia, infatti, è rappresentata come una figura che fissa, desolatamente e vacuamente, la terra ai suoi piedi e abbandona il capo a sostegno della mano che si appoggia ad un orecchio. Emblema della disperante paralisi dell'anima di fronte a una situazione senza uscita o, come direbbe Kafka "un punto di arrivo, ma nessuna via".
Ecco allora che l'intera parabola di Franco rende vivida testimonianza ad uno stadio dell'anima dominato da forze sconosciute che manipolano le tenebre dell'umanità e che il pittore con tecnica straordinaria mostra perché se ne prenda coscienza, perché Faust vinca Mefistofele.
Franco Pacetti, la sua pittura di guardiano dell'Ombra, è un possibile varco ad un piano spirituale superiore colmo di vibrazioni piene di promesse di luce, di Albedo."


 

2012 - Prof. Gian Luigi Zucchini


"Franco Pacetti: artista della memoria, maestro dell'incisione"

Piccolo porto (acquaforte, 1973, cm 16,2 x 21,3)

Piccolo porto
(acquaforte, 1973,
cm 16,2 x 21,3)

"Riesce difficile anche a me capire come mai certi artisti, di qualità e notevole valore espressivo, siano scarsamente conosciuti o addirittura ignorati nel grande «luna park» dell'arte, dove convivono allegramente, come in un circo, la donna cannone, il «clown» malinconico, l'illusionista mistificatore e il sassofonista di genio. Eppure oggi, nel gran parco fieristico della creatività e dell'invenzione, capita di vedere di tutto; e naturalmente, chi è più appariscente e più scandalosamente eversivo suscita nel pubblico curiosità anche talvolta troppo morbose, tanto da essere esaltato come genio.
Qualcuno lo è davvero, ma in ogni caso subentrano a reggere le fila e a espandere le voci di plauso e consenso i mondi affaristici dei mercati e della pubblicità. E, in quel caso, non c'è più possibilità di competizione. Così tante voci, anche meritevoli di emergere, rimangono sepolte in silenzi frustranti e sommerse da colpevoli ma frequentissime negligenze.
E' il caso di Franco Pacetti, un artista raffinatissimo e sensibile, che mi viene fatto conoscere dal sempre attivo scopritore di talenti Adriano Simoncini, il quale, dopo lunghe insistenze, riuscì a trarre fuori dal suo mondo sognante e appartato questo singolare pittore, gli organizzò una personale nella bella galleria "La Fornace" di Pianoro, e mi ha ora invitato a scrivere alcune mie impressioni su questa rivista, per arricchire ulteriormente la schiera di artisti che nell'Appennino vive, o lavora, o ne fa luogo di pausa e riposo d'anima, oltre che fisico e intellettuale.
E così, informato che l'artista aveva allestito una mostra presso la Galleria Sant'Isaia di Bologna, mi sono recato a vedere le opere esposte. Tele con ritratti e paesaggi nella prima sala o appesi tra anfratti e corridoi, poi incisioni ai muri, nella più ampia sala centrale; e lì, su un tavolo, ancora incisioni, disegni, acquerelli in due consistenti cartelle. Che sfoglio con crescente stupore. Ecco, per esempio, il graffio rapido e descrittivo del Guercino, che appare qua e là citato in chine acquarellate; l'eleganza classica di alcuni volti, che evocano nella severità Piero della Francesca, il Mantegna, o piuttosto, altre volte, la sensuale bellezza del Bramante; ecco poi l'eco, quasi la voce di Lea Colliva, nei grandi volti di donne, e poi il segno diligentemente inciso con perfezione rara, che fa emergere dall'intrico ordinato del tratteggio l'ombra e la luce, i chiarori intensi e le penombre discrete, e i controluce eseguiti come se la carta bianca e il segno inciso sulla lastra fossero colori, diffondessero soffi di luce.
Ricordo Morandi, evoco Rembrandt in quella leggerezza di morsure che lievitano sul foglio trasformando la fragilità della materia cartacea in un consistente mondo di cromatismi spesso fantastici. E così la personalità di questo artista, che non esito a definire un maestro dell'incisione, emerge in duplice dimensione.
La prima riguarda la sua cultura visiva, che si avvale di quei tramandi tanto cari ad Arcangeli, e da lui così intensamente ribaditi; la seconda, invece, mi pare si ricolleghi alla scuola grafica del grande maestro bolognese di via Fondazza. E infatti Morandi lo ebbe allievo, seppure 'clandestino', termine con cui gli piaceva definire il giovanissimo Pacetti; il quale molto apprese pure da Lea Colliva, da Nino Bertocchi e da altri, forse, visti appena o più a fondo conosciuti.
Ma Pacetti, che è anche poeta e che ha scritto raffinate liriche, alcune delle quali pubblicate ora nel bellissimo catalogo disponibile presso l'artista, evolve poi per conto proprio, segnala la propria personalità creativa in un'effusione dolce della bellezza e della malinconia, dell'affettività e del sentimento: un vigore e una grazia umana che trapela dalle sue figure, dai suoi molti ritratti; e poi nella liberazione totale del sogno. Incursioni oniriche, invenzioni surrealistiche si succedono a discrete scene di paesaggi e figure, giochi di nubi corrusche, alate invenzioni di chimere scosse da impeti di tempesta, vele frustate dal vento, onde che tumultuano tra cupi gorghi di segni incisi con nervosa precisione.
L'opera pittorica è invece esigua, perché non poté essere approfondita a causa di un'allergia fortissima agli impasti chimici dei colori che colpì da subito l'artista. Ma anche in quei primi quadretti, quale avvolgente malinconia, quale morbidezza di colore, quale sottile nostalgia. Un esempio per tutti: «Prima neve», 1950, uno dei primi quadri del giovanissimo Pacetti. Ma già questa lieve nevicata sui tetti delle case antiche della città, illumina e rattrista ad un tempo. - Dove le nevi dell'altro anno? - si interrogava tristemente il poeta Villon. Scomparse, per sempre. Eppure, lì sono restate, restano ancora, resteranno: ci ricordano il silenzio, il colore, l'amore di un tempo.
Ecco, quando la pittura diventa suscitatrice di voci, di silenzi, di emozioni, di stati d'animo profondi e suggestivi, allora è arte, e il suo autore è un artista."